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and-rea
il Life che ho tentato di postare in precedenza non è andato a buon fine e non riesco a cancellarlo (aiuto!), quindi ci riprovo, a puntate questa volta.

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Uganda, città di Kampala.
Viaggio nel progetto urbano di sviluppo di ActionAid International

All’improvviso il verde si allontana nello specchietto retrovisore del pick-up e ai margini della strada compaiono le prime case. Per tutto il primo tratto dei 45 chilometri che corrono dall’aeroporto di Entebbe alla capitale Kampala ho visto solo quel verde: foreste immense, brillanti e la sponda nord-occidentale del lago Vittoria. Uno spettacolo impressionante che smentisce il mio stereotipo dell’Africa desertica.

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Quelle che da lontano assomigliavano a case sono in realtà baracche pericolanti. Le pareti sono composte da assi di legno marcio dipinte in colori stinti e consumati dal sole e i tetti sono di lamiera arrugginita, arancione sporco. Non hanno pavimenti, solo lo sterrato rosso di argilla della strada, fatto di buche fangose e pozzanghere. I pochi più fortunati hanno qualche asse di legno da posare a terra.

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Man mano che mi avvicino a Kampala il traffico diventa più caotico. I taxi su due ruote, bici o motorini chiamati “Boda Boda”, procedono frenetici mentre i passeggeri salgono e scendono al volo, pagando il tragitto con pochi spiccioli: 100 scellini ugandesi per la bici e 300 per il motorino, pari rispettivamente a 5 e 15 centesimi di euro. I taxi su quattro ruote sono minibus Toyota chiamati “kamunyi” (l’equivalente ugandese del kenyota “matatu”). Sono una miriade e da lontano, con il fracasso di marmitte forate e le fermate e partenze improvvise, somigliano a uno sciame di insetti indeciso sul modo in cui procedere.

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Lontano dal rumore di chi cerca il modo di arrivare a fine giornata, si intravedono i palazzi alti e puliti di banche e sedi di organizzazioni internazionali. Vista dalle strade sporche, la zona benestante assomiglia a una di quelle sfere trasparenti completamente sigillate che contengono un ecosistema in miniatura. Una micro-esistenza indipendente dalla caotica vita reale.
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Kampala è costruita in una zona collinare. Alla base, dove in una conca si raccoglie tutta l’acqua piovana, il fango e i rifiuti, c’è lo slum. La baraccopoli. Il “degrado urbano” secondo le più rosee aspettative, di fatto la miseria peggiore, come a Katanga, un distretto di Kampala.
Scendo dal pick-up con la sensazione di affondare nel terreno, che non assorbe l’acqua in profondità. Nella notte la pioggia ha trasformato l’argilla in una fanghiglia viscida e molle. A ogni passo il peso del mio corpo comprime la terra, provocando una risalita d’acqua che forma una piccola pozzanghera. Sono arrivato a destinazione: quattro pareti diroccate di legno imbarcato e lamiera. Qui Bena vive con i suoi undici bambini, anche se sembra impossibile che possano stare in così tanti in una sola stanza di quindici metri quadrati. La porta è spalancata. Niente separa le pozze che sono fuori da quelle che sono dentro. L’acqua che è scesa durante la notte risale durante il giorno, per strada come in casa.

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Bena Nakijoba ha sessantacinque anni e si esprime lentamente nell’idioma locale, il luganda. La lingua ufficiale dell’Uganda è l’inglese, ma nella baraccopoli sono in pochi a parlarlo. La discriminazione, la differenza tra poveri e meno poveri, o meglio tra poveri e miserabili, si vede anche da questo. Dal confine linguistico che separa la miseria dello slum dalla povertà fatta di mancanza di cibo, istruzione e sanità di Kampala. Bena ci fa accomodare. La stanza è un miscuglio di stracci sporchi, avanzi di rifiuti in decomposizione e fango. Comincia a piovigginare e in pochi minuti un rigagnolo di acqua putrida si forma ai nostri piedi. Bena ci spiega che quando di notte piove, l’unica soluzione è alzarsi in piedi e aspettare, al centro della stanza, che smetta e che venga giorno. Con la luce si può svuotare la casa e lasciare che il caldo asciughi il terreno. “A volte non possiamo dormire per diversi giorni di fila a causa dell’acqua che risale dal terreno”. I bambini le girano intorno, arrampicandosi ridendo sulle sue spalle. Pochi anni fa, dopo che i suoi figli sono morti di AIDS, Bena ha iniziato a prendersi cura dei piccoli rimasti orfani a causa di questa malattia. “Ci sono molti problemi qui a Katanga”, ci spiega. “Lo sporco, gli escrementi, le malattie”. Katanga è un’area nella quale vivono 550 persone. Le case sono tutte composte di una sola stanza e non c’è gabinetto. Ci sono solo due bagni, due antri fetidi e sporchi in comune per tutte le 550 persone. A pagamento. Andare in bagno costa 100 scellini ugandesi, pari al prezzo di due chilometri di strada su un Boda Boda a pedali. Un giornale, bene di lusso, ne costa 300. Una famiglia di dieci persone che va in bagno una sola volta a testa al giorno dovrebbe spendere mille scellini. Nessuno può permettersi di pagare per espletare i propri bisogni e la strada, già infestata dalla fogna a cielo aperto, diventa il gabinetto pubblico.

“Morire di dissenteria è questione di poco qui”, continua Bena “e la diffusione dell’AIDS è una piaga ancora più violenta”.
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“L’AIDS sta decimando la popolazione di tutta l’Africa sub-sahariana, non solo quella ugandese”, mi racconta Sinayi, un operatore di ActionAid International Uganda, mentre camminiamo tra le baracche.

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“Dei 42 milioni di persone sieropositive in tutto il mondo più della metà (25 milioni) vive nell’Africa sub-sahariana”. Sinayi mi mostra alcuni dati degli ultimi rapporti redatti. In Zambia l’aspettativa di vita media è oggi di 34 anni, sarebbe stata di 49 senza la malattia. In Botswana il reddito pro-capite delle persone più povere sarebbe circa del 16 per cento più elevato, se il 20 per cento dei bambini non avesse perso un genitore a causa dell’HIV/AIDS
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In questi giorni in Uganda si sta parlando molto di AIDS. La lotta al contagio è solo uno degli argomenti, insieme a temi come lo sviluppo e il commercio, sui quali l’organizzazione non governativa ActionAid International, da decenni attiva sul fronte dei diritti, sta raccogliendo pensieri, opinioni, voci da parte della popolazione. Alcuni membri dell’organizzazione e rappresentanti delle comunità locali sotto lo slogan “Get On Board” sono partiti il 31 marzo 2005 da Johannesburg a bordo di un piccolo bus, un “matatu” come quelli che affollano le strade di tutta l’Africa.

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Il matatu ha attraversato Sudafrica, Mozambico, Malawi, Tanzania, Kenya ed è arrivato in Uganda. Tra qualche giorno si imbarcherà a Mombasa alla volta dell’Europa. Il matatu sta raccogliendo voci e messaggi delle comunità più povere ed emarginate per portarle ai leader del G8 che si riuniranno a Gleneagles, in Scozia, dal 6 all’8 luglio. Prima di arrivare in Scozia, il piccolo bus passerà in Italia e a Londra. Lo scopo del viaggio del matatu è di dare voce a chi non ne ha.
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Durante la sosta a Kampala il matatu ha ascoltato le storie di ogni persona e ne ha raccolto le voci, come quella di Grace, che dice “G8: datemi più medicine, sono sieropositiva. Date più soldi al mio governo così i miei figli possono andare a scuola”.

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Grace Nansubuya ha trentasei anni e da sette è sieropositiva. Dimostra almeno il doppio della sua età. Parla a fatica, la sua voce è sottile, appena alza un po’ il tono inizia a tossire. Il suo primo marito è morto di AIDS, ma a lei nessuno lo ha mai detto, così si è risposata. “Quando abbiamo scoperto che i figli del nuovo matrimonio erano sieropositivi, lui è scappato”. Non c’è odio né disprezzo nelle parole di Grace. Come potrebbe? Nella migliore delle ipotesi il secondo marito si trova nelle sue stesse condizioni, qualche baracca più in là. Mentre parla è seduta su un piccolo rialzo in pietra davanti alla porta di casa. I sei bambini hanno un’età compresa fra i 4 e i 15 anni.

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Le girano continuamente attorno. Il più piccolo ha avuto la malaria cerebrale a due anni, l’infezione ha danneggiato gravemente il suo cervello e ora non può più parlare; quattro dei suoi fratelli, invece, sono sieropositivi. Resta una sola bambina sana, una ragazzina di 15 anni, l’unica che ha avuto la possibilità di frequentare qualche anno di scuola, per poi ritornare alla miseria. Miseria fatta di interminabili giornate passate a cercare di racimolare i soldi per mantenere la famiglia.
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Nelle baracche circostanti altre ragazze della sua età si prostituiscono già da diverso tempo per sfamare fratelli e genitori. Se la ragazza non diventa una prostituta, non viene violentata, non prende l’AIDS o la malaria e riesce a mangiare almeno un paio di volte a settimana, forse, allora, riesce a entrare nell’età adulta.

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All’interno di un’intera famiglia di sette individui, una sola persona può, con molta fortuna e poche probabilità, sopravvivere per i prossimi cinque anni. Quello che stupisce è che Grace, in questa situazione, non chieda più soldi per sé. La donna chiede fondi per il paese, vuole che il governo dell’Uganda sia messo nelle condizioni di poter garantire sanità e istruzione. Tutte le persone incontrate in questo viaggio non chiedono carità, ma il rispetto dei propri diritti allo sviluppo, all’educazione, alla salute.

ActionAid International insegna alle donne nella situazione di Grace a cucire o intrecciare paglia per farne cappelli e tappeti. Insegna loro come usare la poca terra che hanno intorno alla baracca per coltivare piante essenziali all’alimentazione e ricavarne anche medicine tradizionali contro febbre e dissenteria. “Ottenere i farmaci non è sufficiente a curare malaria e HIV”, mi spiega Sinayi. “Se il farmaco viene assunto in uno stato di dissenteria, in assenza di cibo o con infezioni in corso, il suo effetto si riduce quasi a zero. Prima di iniziare le cure farmacologiche dobbiamo garantire una vita dignitosa a queste persone, altrimenti è quasi inutile investire in medicinali. I paesi ricchi investono in Africa nella cura dell’HIV/AIDS, ma spesso non destinano sufficienti fondi alla sanità nel suo complesso o a progetti che rendano autonome e indipendenti dal punto di vista alimentare le comunità più povere. Così queste comunità non possono usufruire correttamente dei fondi per HIV/AIDS”.

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Sono le donne a subire di più in questa situazione. Sono soggette a violenze quotidiane e sono escluse dai momenti decisionali della comunità. Per aiutarle all’interno dello slum è nata a Makarere, un’area di Kampala, l’associazione MAWDA, Makarere Women Development Association, partner di ActionAid. La sede dell’organizzazione, composta di due stanze di nemmeno quindici metri quadrati, si trova all’inizio di una fila interminabile di baracche, nella zona non ancora invasa dalla fogna scoperta. Nella prima stanza c’è una scrivania, qualche sedia e lungo una parete una panca sulla quale, quando entriamo, sono sedute delle donne che stanno parlando con alcuni responsabili dell’organizzazione. Peter è uno di questi.
Ha ventiquattro anni e si è appena laureato all’università di Kampala grazie a una borsa di studio. É cresciuto ai margini dello slum, respirando tutti i giorni l’odore della fogna e della carne che marcisce sui banchi di legno sotto al sole, venduta a quei pochi che possono permettersela. Insieme ad altri colleghi si occupa delle donne e dei bambini che vivono nella baraccopoli. Le donne sedute sulla panca seguono tutte i programmi di MAWDA; sono vedove dell’AIDS, sieropositive, donne maltrattate. Chi è in contatto con MAWDA da più tempo ha uno sguardo fiero, non si vergogna più di quello che ha subito e che l’ha portata a rivolgersi all’associazione.


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“La violenza”, racconta Peter, “è la quotidianità qui, è una cosa che anche i bambini imparano a conoscere fin da piccoli. Le donne subiscono violenze sessuali dai propri mariti quasi tutti i giorni e le case sono stanzoni dove vivono tutti insieme. Gli stupri avvengono sempre sotto gli occhi dei figli. Non c’è da stupirsi se poi i bambini maschi ripetono gli stessi atti nei confronti delle coetanee”. Nello slum di Kampala sono state adibite a scuola due costruzioni composte di due grandi stanze. Anche se sono poche le famiglie a potersi permettere di mandare un figlio a scuola, di lasciarlo fuori tutto il giorno senza che guadagni i soldi per vivere, la scuola è una grande conquista in una situazione di povertà come questa. Le femmine, però, non possono frequentare le lezioni. Non vanno non perché sia loro vietato, ma perché è lì che spesso subiscono molestie. É tra i banchi di scuola che i compagni trovano pretesti per aggredirle una volta fuori dall’aula e stuprarle. MAWDA ha avviato dei corsi dal titolo “Cosa fare quando subisco violenze”, lezioni e incontri per spiegare ai bambini, maschi e femmine, cosa sia la violenza e cosa essa comporti, a livello fisico e sociale. “Cerchiamo anche di scoprire se i bambini hanno subito molestie, li spingiamo a scrivere in forma anonima delle domande e poi rispondiamo a tutte. In questo modo le paure che qualcuno non ha esternato, magari sono state scritte da un altro e le risposte arrivano lo stesso”, spiega Peter.
Leggendo il quaderno in cui sono raccolte le frasi scritte dai bambini mi rendo conto di un particolare che in principio mi era sfuggito. Il corso si chiama “Cosa fare quando subisco violenze”, non “Cosa fare se ho paura di subire violenza” o “Cosa fare se penso che potrebbe capitare a me”. L’ipotesi di non subire violenze non è nemmeno concepita. Quell’avverbio, “quando”, rispecchia esattamente la realtà dei fatti. “Stimiamo che almeno il 70% di chi ha meno di 18 anni abbia subito molestie, violenze o stupri”, ci dice Peter. “Basta leggere qui” e indica il quaderno, che non contiene solo domande, ma è denso di racconti che non è possibile riassumere in poche righe senza diventare banali.


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Nella seconda stanza ci sono quattro macchine da cucito, quattro Singer nere con la scritta color oro. Peter ci precede. “Qui spieghiamo alle donne come fabbricare vestiti, bambole, oggetti che poi possono rivendere al mercato per guadagnare qualcosa. Il cucito, inoltre, è anche una scusa per tenere insieme persone che hanno un percorso di dolore comune, esperienze drammatiche simili. In questo modo parlano più liberamente tra loro e con noi”. Una ragazza si sta esercitando con un foglio di carta al posto della stoffa.

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Cuce senza filo per imparare a dosare la forza sul pedale e a non spezzare gli aghi. Appena entriamo nella stanza di lavoro, le donne abbassano timide la testa, fino a quando Peter non ci presenta. Allora alzano gli occhi per osservarci, come noi stiamo facendo con loro. Ognuna di queste donne è stata aiutata da MAWDA a livello psicologico, ma anche materiale. Hanno imparato a coltivare alcune piante per nutrire se stesse e i propri figli, a ricavarne medicinali, pomate e tisane. Alcune di loro hanno anche trovato una nuova casa, come Nadijja.
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Nadijja Nakito ha quarantasei anni. Suo marito è morto di AIDS pochi anni prima e da allora ha scoperto di aver contratto la malattia anche lei. Nadijja ha sei figli, due di loro sono sieropositivi. Una bambina le sta aggrappata al collo, ascolta anche lei la voce della madre che racconta. “Stavamo dormendo quando è successo. Aveva piovuto tutto il pomeriggio e l’acqua, in casa, risaliva dal terreno senza sosta”. La casa consiste in una stanza di 12 metri quadrati, o meglio consisteva. Una parete è crollata all’improvviso. “Fortunatamente è crollata verso l’esterno”, dice Peter, “altrimenti li avrebbe travolti tutti”.


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Nadijja ci mostra quello che resta dell’abitazione. In mezzo al fango ci sono ancora degli stracci e qualche pentola ormai inservibile.

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“MAWDA ci ha salvati. Conoscevo già Peter e gli altri, per via della mia malattia. Ci hanno dato un’altra casa, insieme ad altre donne nella mia situazione. C’è anche una pompa dell’acqua lì vicino, così non ho più bisogno del pozzo”. Quello che Nadijja chiama pozzo è un buco nel terreno da cui sale dell’acqua sporca e infetta. Ogni volta che piove il pozzo viene sommerso dal fango e travolto dalla fogna. Anche l’acqua delle pompe non è pulita, ma è meno pericolosa di questa, il rischio di prendere il colera è più basso. Le pompe, però, sono poche e ogni persona deve fare almeno due chilometri a piedi con le taniche per raggiungerne una dallo slum.
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Anche i bambini vanno a prendere l’acqua.

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Ognuno ha una tanica di dimensioni adeguate all’età. Sono pochissime le famiglie, e nessuna dello slum, ad avere accesso a un rubinetto. I rubinetti, come sculture che simboleggiano il confine della povertà, spuntano dal terreno attaccati a tubi di ferro arrugginito e portano acqua leggermente più pulita. Sono chiusi da lucchetti e le famiglie che possono utilizzarli spesso li sorvegliano.
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Camminando si deve stare attenti a non scivolare, per non cadere nel corso d’acqua, escrementi e rifiuti che scorre tra le baracche.

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Le pance dei bimbi non sono gonfie come quelle dei bambini delle immagini che provengono da altri paesi africani, come il Niger o l’Etiopia. Nessuno indossa abiti tipici, indumenti e monili tramandati di generazione in generazione. C’è solo miseria, senza alcuna poesia. “Il degrado urbano è peggiore di quello delle aree agricole”, dice Peter. Tra le comunità isolate viene più naturale pensare che non esista acqua potabile o che la malaria sia diffusa, che non esista una mentalità di prevenzione contro l’AIDS e che il livello di educazione sia basso. In una città la povertà assume un aspetto ancora più terrificante, perché si trascina dietro il degrado e l’abbrutimento dell’essere umano. La prostituzione e la violenza non sono più fattori legati a una mentalità chiusa e immutata da secoli, ma diventano una pratica sociale, è come se fossero moralmente sdoganate, fuori e dentro le pareti domestiche. Le malattie non sono il frutto di un ambiente isolato, nel quale è difficile sfuggire alle paludi infestate di malaria, ma sono il prodotto dello sporco di migliaia di persone concentrate in pochissimo spazio, di una fogna che scorre davanti a casa, di latrine non accessibili. Non c’è terra da coltivare, se non il fazzoletto tra la fogna e la baracca. Non ci sono animali da allevare.
and-rea
Camminiamo per lo slum fino ad arrivare nello spiazzo centrale, dove il matatu è parcheggiato al centro ed è stato allestito un palco. Ci sono più di duemila persone e molti si alternano a parlare, a esporre il proprio messaggio discutendo con gli operatori di ActionAid.

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Rabbia e speranza si alternano nella voce della gente. Nadijja si avvicina al matatu e in silenzio lascia la sua busta.
and-rea
Ritornando verso l’aeroporto di Entebbe, l’ultimo giorno, guardo scorrere il verde della foresta e la sponda nord-occidentale del Lago Vittoria; le immagini che all’inizio del viaggio pensavo mi avrebbero suscitato nostalgia una volta a casa.

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Ripensando alle parole di Peter, di Bena e di tutte le altre persone incontrate, una sensazione di tristezza e rabbia mi scuote. Lo immaginavo differente il “mal d’Africa”.
and-rea
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e qui termina il racconto.

Il viaggio è stato fatto nel maggio 2005. Ho voluto riportare i nomi delle persone e delle organizzazioni che mi hanno aiutato e che ho incontrato durante il percorso.
Le immagini, lo so, sono più didascaliche che belle, ma ci tenevo a condividere questa esperienza, la mia prima volta in Africa e il primo viaggio con la D70.


Ho postato in modo forse confuso, rispondendomi da solo ai messaggi per terminare il racconto, scusate, rimedierò con i prossimi racconti.

A chiunque voglia commentare (nel bene e nel male), un grazie in anticipo

Andrea


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Fedro
un racconto forte, una testimonianza forte, parole ed immagini che ci raccontano una realtà che spesso vogliamo ignorare.

grazie per il tuo life, grazie per averci raccontato in maniera asciutta, diretta ed efficacissima alcune storie di kampala. mi è piaciuto molto.

marco.
brusa69
Se non fosse stato per Fedro avrei perso questo LIFE....

e forse anche i pochi commenti ricevuti sono un segno che sulla realtà Africana e sulla situazione in genere delle aree più degradate del pianeta è tempo di parlare meno e di mettere in campo realmente qualcosa di efficace. Chissà ...
Per il momento ti ringrazio per il contributo.

toad
Grande!

Testo essenziale, penetrante ed efficace...

QUOTE(and-rea @ Jul 6 2006, 09:30 AM) *

Le immagini, lo so, sono più didascaliche che belle


... e splendide fotografie nella loro crudezza.

Mi hanno insegnato che il tutto si definisce con una sola parola: réportage. E di notevole livello.

In questo caso la faccina assume il suo significato letterale: guru.gif

Grazie.
mirko f.
Un bel life, complimenti!
E un bene che ci siano persone con la volontà di far conoscere realtà, delle quali si sente parlare solo fugacemente dai mass media..
Una testimonianza diretta, sebbene raggiunga pochi, puo magari aiutare a riflettere.

Mirko
Brunosereni
Purtroppo il tuo bellissimo life ci porta dentro ad una realtà che ha l'eccezionalità di essere quotidiana. Non è frutto di un evento tragico e momentaneo ma è, purtroppo, "normalmente" così drammatica tutti i giorni.
Questo la toglie dal circuito dei media e, se non fosse per quelle organizzazioni che ci operano tra mille difficolttà, rimarrebbe così, dimenticata o ignorata.
Grazie per le belle immagini.

Bruno S.
davidegraphicart
Sinceramente, non so cosa dire...
...tutti i giorni ci preoccupiamo per delle stronzate (perdonatemi la parola) assurde... ieri per esempio ero in difficoltà per come vestirmi per un matrimonio, se ricomprare le scarpe nuove o no... non so... sono rimasto molto toccato sia dalle immagini, sia dal racconto, bellissimo.
Penso che dobbiamo ritenerci molto fortunati, in fondo, non ci manca niente...
Grazie per il tuo Life,
Davide.
borgunto
grazie, Andrea, per quello che fai insieme ad ActionAid e, soprattutto per averlo condiviso con noi.

Sono d'accordo con Davide: normalmente ci preoccupano cose senza senso... Non sarebbe male, ogni tanto, fare un po' di silenzio

Ciao e complimenti ancora
denniszee
grazie.gif per ciò che ci hai mostrato e grazie.gif anche per ciò che fai guru.gif

Un LIFE che lascia il segno cerotto.gif

Ciao

Dennis

elwood67
...veramente senza parole...

evitando di dire cose scontate, dette e ridette, ti faccio i miei più sinceri complimenti per questo racconto (che merita veramente di essere letto) corredato da foto molto forti ma che fanno riflettere su un problema di cui a nessuno piace sentir parlare.

Grazie

Stefano

Michelino74
Un bellissimo life che mi ha toccato il cuore, non ci sono parole per esprimere la rabbia mista a tristezza, eppure i potenti spendono miliardi per far delle guerre inutili o per andare su marte a cercare chissa cosa, miliardi che si potrebbero sfamare miliardi di persone.

Michele
serdor
QUOTE(davidegraphicart @ Aug 3 2006, 12:15 PM) *

Sinceramente, non so cosa dire...
...tutti i giorni ci preoccupiamo per delle stronzate.
Penso che dobbiamo ritenerci molto fortunati, in fondo, non ci manca niente...
Grazie per il tuo Life,
Davide.

Posso solo quotare le parole di Davide e riflettere su ciò che ci hai mostrato e raccontato.
Bravo un bellissimo life.
mrcrowley
Grazie.Forte e sublime.Forte perchè hai riportato la realtà così come è e per questo mi è arrivato come un pugno allo stomaco.

Pegaso
In genere non leggo i Life con molto testo e poche foto (per questioni di tempo, non di "gusti") ma le tue parole mi hanno rapito e ho letto tutto d'un fiato.

Le sensazioni che provo ora sono le stesse che hai provato tu: tristezza e rabbia.

Bravo !!!

Ciao wink.gif
Angelo
and-rea
ciao a tutti,
come prima cosa mi scuso per non aver risposto ai vostri complimenti prima, ma confesso che mi ero perso nel forum e la possibilità di connettermi solo al lavoro limitava molto le sperimentazioni.
Ora che finalmente sono dotato di una connessione a casa (evvai!) posso riprendere a seguire il forum spesso.

vi ringrazio per i complimenti e preparatevi... tra poco arriva l'INDIA!

andrea
annanik
Andrea, mi ero persa questo tuo life...e sono contenta che tu lo abbia riportato in evidenza.

Sono arrivata alla fine con il nodo alla gola, le immagini e soprattutto il testo coinvolgono e fanno molto riflettere...su quanta sofferenza ci sia e quanto noi ne siamo quotidianamente indifferenti.

Grazie per aver condiviso questa tua esperienza.

Anna
LucaMariaIbba
dry.gif Non mi ero accorto di questo Life ... smile.gif devo ringraziarti per averlo rimesso in visione e ... per avermi riportato alla "cruda realtà". Complimenti per questo lavoro di straordinaria componente "informativa" ed "emozionale". Spesso realtà a noi lontane vengono raccontate in maniera molto soft e così facendo non riescono a farci comprendere niente di quanto dicono e di quanto invece si possa fare. Dici ..."però!!?"... e poi tiri dritto preso dalle tue "problematiche" quotidiane. Nel tuo Life, tramite la semplicità ed il modo diretto di raccontarti riesci nell’intento di sensibilizzare e nelle tue foto che non "NASCONDONO" niente trovo la grande forza della FOTOGRAFIA e della tua storia.
Attendo con ansia l' "India".
Cari saluti.
Luca
Gianni_Casanova
Pollice.gif bellissimo!!
l'ho visto solo ora, per fortuna non l'ho perso,

piccola annotazione, se fosse composto in pdf, come uno che ho appena letto di Ciavarella (Maldive, dietro la maschera), probabilmente sarebbe di lettura più efficace..e potrei anche scaricarlo per potermelo gustare,
un caro saluto, Gianni
and-rea
Buongiorno a tutti,
sono piacevolmente sorpreso delle reazioni... una bella community, davvero.
Gianni: grazie del consiglio sul pdf, ne approfitto e vado a vedermi Maldive, dietro la maschera.

in attesa dell'India (ci metterò ancora un po'... le immagini sono pronte, ma riordinare le idee in un testo il più possibile obiettivo è molto dfficile per me), vi posto un altro scatto dell'Africa.

il necessaire da bagno di una madre con i tre figli...

vdisalvo
anch'io mi ero perso il life. L'ho seguito incollato allo schermo per tutta la sua durata; racconti di una povertà che non conoscevo, di una condizione dell'essere umano che non avrei nemmeno potuto immaginare. Lo fai con la forza della semplicità e della completezza e sono anch'io daccordo sul fatto che questo sia vero reportage.
Un racconto che mi ha costretto a fermarmi a pensare, come raramente mi è successo.
Un gosso grazie.gif

valentino
Fabio Pianigiani
QUOTE(and-rea @ Jul 5 2006, 09:53 AM) *

...
Quello che stupisce è che Grace, in questa situazione, non chieda più soldi per sé. La donna chiede fondi per il paese, vuole che il governo dell’Uganda sia messo nelle condizioni di poter garantire sanità e istruzione. Tutte le persone incontrate in questo viaggio non chiedono carità, ma il rispetto dei propri diritti allo sviluppo, all’educazione, alla salute.
....

Segno tangibile della presenza di una coscienza civile.
Talvolta in passato ho pensato che tutto sommato essendo sempre vissuti così ... neanche percepissero la possibilità ... la necessità di un miglioramento.
Ero giovane ... ma mi vergogno per quell'ottuso pensiero.
Al contrario, se condividessimo con loro anche solo una piccola parte delle nostre sterminate ricchezze, quegli uomini, donne e bambini sarebbero capaci di "rivoltare" il mondo e magari farlo girare per il verso giusto.
Ma non sarà che questo ci spaventa?
Sarà per questo che gli neghiamo con la nostra cecità ... o per meglio dire il nostro non voler vedere, il loro diritto di vivere?

Un commento al tuo lavoro?
Un racconto molto importante per me.

Grazie


marzia62
anch'io vedo solo ora questo GRANDE life.. e penso che solo "ieri" era natale.... Non ti nascondo la commozione che provo tra parole e immagini e la rabbia e l'impotenza che mi assalgono e non solo... anche la coscienza che morde...
grazie.gif e se pensi che qualcosa di concreto fra noi si possa fare, io ci sono...
marzia
and-rea
ciao a tutti,
sono contento delle reazioni che il Life ha prodotto.
Cosa dire? Cosa si può fare?
La curiosità prima di tutto, chiedersi sempre il perchè delle cose e non accettare risposte scontate.

Credo la cosa più importante sia non fare finta di niente, semplicemente, e ricordare che ogni mezzo può essere veicolo di informazione e la fotografia è uno dei più diretti e potenti.

ciao

andrea
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