Non si può assolutizzare ciò che per natura è relativo, come è estremamente difficile oggettivare ciò che in realtà è soggettivo.
E in fondo anche ciò che ho appena scritto è banale, risaputo e scontato.
Eppure, tra l'assolutismo totale e il totale soggettivismo ci sono sfumature potenzialmente infinite.
Siamo lontani dal campo della matematica pura quindi non serve stabilire esattamente il quando si passa da un concetto ad un altro, con la giusta dose di flessibilità possiamo arrivare a capire da soli, seppure con limiti e confini sempre un pò diversi (perchè sempre un pò soggettivi appunto), quando qualcosa può essere verosimilmente considerata "banale" e quando no.
Il "già visto", inteso come "molto simile" o "difficilmente distinguibile da" già da solo ci aiuta a orientarci nell'oceano della soggettività emotiva.
Ma da solo non basta.
Bisogna prima chiedersi "rispetto a chi?", "in quale contesto"?
Ogni storia va contestualizzata, esattamente come ogni paese del mondo va considerato rispetto a dei confini, non importa se geografici o politici, senza i quali si cadebbre nel puro caos concettuale e comunicativo.
Quindi la prima operazione da eseguire è "distinguere l'ambito e il pubblico ai quali intendiamo rivolgerci".
Ogni foto scattata da un fotografo è inestricabilmente legata alla sua soggettività e sfera emotiva, non siamo robot che agiscono in totale (ma neanche parziale) sconnessione con le proprie emozioni.
Anche quando scattiamo per lavoro non possiamo fare a meno di interpretare il soggetto commissionato tramite il nostro peculiare modo di "sentire" l'oggetto indicatoci.
Se è dunque vero che in fondo "tutto è soggettivo" non è altrettanto vero che tutto può essere ammesso e oggettivabile.
Se la foto che scatto è puramente personale-affettiva o il semplice ma consapevole esercizio di un gioco, tutto è lecito finchè la foto rimane confinata nella sfera della visione privata.
Ben venga allora la ripetizione soggettiva di inquadrature o soluzioni fotografiche già sfruttati mille volte e in tutte le salse, (per il nostro "Io" ci sarà sempre una netta differenza tra una foto in cui "a sostenere" la torre di Pisa è un estraneo oppure una persona a noi cara se non quando noi stessi) in fondo si impara anche e soprattutto emulando il prossimo.
Se però la foto o il fotografo hanno la pretesa di rivolgersi a un pubblico giudicante, a una giuria o a un concorso con regole e finalità ben precise ed esplicitate, allora va da sè che le cose cambiano e che difficilmente la proposta di scatti fin troppo simili ad altri passati e remoti possa in qualche modo NON essere giudicata banale e perciò stesso scartata.
In altre parole si cade nel banale quando di ha la "pretesa" di proporre qualcosa di nuovo o di emozionare i sensi altrui sfruttando risultati e soluzioni già ottenuti e reiterati da molti altri prima di noi.
Quando cioè si intende spacciare per originale (non importa "quanto" originale) ciò che a tutti gli effetti non lo è più.
Nella visione privata e nella condivisione amichevole, tutto è ovviamente concesso purchè si abbia comunque ben chiara in mente la differenza tra ciò che si è già visto e già fatto milioni di volte e ciò che non lo è.
Nella proposta a un pubblico giudicante (concorso, lavoro su commissione, ricerca del successo) non basta essere consapevoli della differenza di cui sopra ma bisogna anzitutto metterla in pratica nella ricerca attiva di soluzioni sempre nuove o quanto più stimolanti possibili.
Siete d'accordo?